Luca Sforzini Arte - “Caravaggio testimonial della Vitivinicoltura italiana”


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“Caravaggio testimonial della Vitivinicoltura italiana”

“Caravaggio testimonial della Vitivinicoltura italiana”
A Riccagioia di Torrazza Coste si cinge di pampini il Merisi.

di Luca Sforzini, da "Pavia In Tasca" - gennaio 2010 

TORRAZZA COSTE (PV)  – Il fato, o gl’imperscrutabili disegni del destino, a volte riuniscono ciò che è sparso. Un patrimonio dell’umanità qual è Caravaggio, i cui dipinti affascinano cinque continenti, oggetto di studi diffusi in tutto il mondo, pare aver un legame speciale con un fazzoletto di terra d’Oltrepo, 50 ettari a cavallo tra Torrazza Coste e Montebello della Battaglia.

La mente corre in un flashback agli ultimi fotogrammi della versione cinematografica del “Codice da Vinci” di Dan Brown : là il cerchio si chiude alla Piramide del Louvre, polo esoterico a cui tutto conduce. Qui la Piramide è il Centro Vitivinicolo Riccagioia di Torrazza Coste. Giuseppe Fogliani, noto professore di Patologia Vegetale, è stato Direttore del suo Centro Ricerche; Mauro Di Vito, giovane Storico dell’Arte esperto del Merisi, è cresciuto nella villa confinante alla sua tenuta; il Collegio Ghislieri, un tempo proprietario del complesso, ha ospitato la Giornata di Studi caravaggeschi che è punto d’arrivo e partenza d’un’idea che può dar lustro al territorio. Non leggende ma ricerche scientificamente solide, tutto converge in Oltrepo.

Andiamo con ordine. Il 19 gennaio, a Pavia, Aula Goldoniana del Collegio Ghislieri, un manipolo di studiosi ha tirato le somme d’un importante filone di ricerche caravaggesche. Il 33enne oltrepadano Mauro Di Vito, dottorando a Pisa con una tesi sul Merisi, ci aiuta a capire : “In seguito al successo della mostra Caravaggio a Milano, tenutasi l’anno scorso a Palazzo Marino, in accordo con Mina Gregori e Roberta Lapucci ho avuto modo di organizzare una Giornata di Studi su “Caravaggio, la magia naturale e la patologia vegetale”, per far il punto sull’inusitata e insistita abitudine del Merisi di dipingere piante ed  elementi vegetali colpiti da morbi o manifestazioni  patologiche : secondo la felice definizione del Professor Fogliani, Caravaggio fu infatti il primo pittore scientifico e “fitopatologo ante litteram”. La spiegazione del marciume vegetale all’interno delle citazioni botaniche delle opere di Caravaggio si tende a spiegare, secondo la vulgata, in maniera piuttosto superficiale come un motivo di vanitas. In realtà Caravaggio fu tra i primi (se non uno dei pochissimi) a rappresentare quasi sempre piante malate all’interno dei suoi dipinti, spesso inserendole nelle composizioni iconografiche, senza alcuna pertinenza apparente rispetto al testo illustrato, o addirittura facendone il soggetto dei suoi dipinti, come nel caso della Canestra di Frutta dell’Ambrosiana. A questo punto non basta più spiegarsi il motivo del marciume nei suoi dipinti come un simbolo di decadenza dei frutti terreni o di peccato, nel senso squisitamente morale fino ad ora assegnatogli. E’ stato necessario raccogliere un comitato di relatori provenienti da diversi campi di esperienza e ricomporre la questione con la dovuta distanza storica: Mina Gregori, Direttrice della Fondazione Longhi e celebre studiosa di Caravaggio, ha presentato la Giornata; Giuseppe Fogliani, già Direttore del Centro di Ricerche sulle virosi della vite di Riccagioia di Torrazza Coste, ha identificato per la prima volta le patologie vegetali che Caravaggio dipingeva sulla frutta e sugli alberi. Roberta Lapucci, restauratrice e Storica dell’arte, ha presentato gli ultimi risultati delle sue ricerche sull’ottica in Caravaggio. La dottoranda Annarita Franza, promettente Storica della Medicina, ha spiegato come nella teoria della “segnatura vegetale”, vale a dire nella fisiologia botanica del Cinquecento, il marciume vegetale, causa delle patologie dipinte da Caravaggio, corrispondesse a un eccesso di umore freddo e umido, caratteristiche del disequilibrio che, nella concezione ippocratica vigente, erano anche le cause dell’epilessia. Io, infine” – prosegue Di Vito – “ho spiegato come l’opera di Caravaggio sia più comprensibile attraverso lo studio dei Trattati e dei manuali cinquecenteschi. In particolare mi sono soffermato sulla storia della patologia vegetale del Cinquecento, sottolineando che Giovan Battista della Porta, autore di trattati di agronomia, fu tra i primi scrittori a sviluppare una coscienza a sé della disciplina che oggi conosciamo col nome di patologia vegetale, e che la pubblicazione dei suoi Trattati precedette di pochi anni la realizzazione dei primi dipinti di Caravaggio, quelli in cui egli insiste maggiormente sul tema della frutta malata”.

L’ alto consesso scientifico, e la felice compresenza – nei rispettivi ruoli – di due “figli” di Riccagioia quali Fogliani e Di Vito, ha dato nuova linfa e fatto emergere un mai sopito “pallino” di Giuseppe Fogliani.

Racconta Di Vito : “Dopo il verbasco, la vite - in forma di frutta o pampino - è la pianta più raffigurata nei dipinti di Caravaggio. Basti ricordare tre opere note anche ai meno esperti : il Bacco conservato agli Uffizi, il Bacchino malato della Galleria Borghese in Roma e la Canestra di frutta dell’ Ambrosiana”. Quale migliore stimolo per chi ha profuso tempo, energie e passione tra i filari di Riccagioia?

Conferma Di Vito : “Sì, con il Professor Fogliani sto lavorando a un progetto che prevede l’incoronazione del Merisi a testimonial della Vitivinicoltura italiana; per ora non posso aggiungere altro, ma ne sentirete presto parlare.”.

La scintilla d’un’idea, i primi passi organizzativi d’un progetto che, cingendo di pampini Caravaggio, può portare il nome d’Oltrepo nel mondo.

 

Profilo di Mauro Di Vito, giovane Storico dell’Arte di Torrazza Coste-
La passione per Caravaggio cresce in Oltrepo
 

Mauro Di Vito, classe 1976, oltrepadano di Torrazza Coste, avvicina Caravaggio all’Oltrepo. Laureato all’Università di Pavia con Luisa Giordano ed una tesi incentrata su tematiche caravaggesche, specializzato a Firenze con Mina Gregori (curatrice della Mostra caravaggesca per il Bicentenario della Pinacoteca di Brera), dottorando a Pisa con una tesi sul Merisi. E’ lui stesso a parlarci del cammino che l’ha condotto fin qui : un racconto intimista, nascita e crescita d’una passione per Caravaggio.

“Sono nato a Pavia nel 1976, i miei primi ricordi sono le superfici rutilanti della cucina di Arena Po, dove mio padre aveva una farmacia. Più tardi ci siamo trasferiti a Torrazza Coste dove i miei nonni paterni avevano una villa dal giardino incantato. è là che per la prima volta ho imparato a conoscere le piante e gli animali. Ogni bambino dovrebbe avere un giardino dove crescere. I miei primi passi nel mondo della tassonomia sono avvenuti sotto la guida di Carlo Ridella, allora direttore del Giardino Alpino di Pietra Corva. Ricordo che mi portava sulle colline a caccia di orchidee, l’amore e la curiosità che aveva per la vegetazione era intenso, esemplare. Credo di aver imparato molto da lui. Anche la magia riscuoteva in me un profondo e misterioso interesse. Avevo un libro intitolato Il manuale delle streghe e sarei stato ore ad ascoltare le storie dei maghi. Tutto questo ha lasciato tracce indelebili. Nonostante abbia avuto pessimi risultati al Liceo Classico Grattoni di Voghera, in un’epoca che sembra lontana, senza telefonini e senza internet, ricordo quegli anni come tra i più belli. L’Università di Pavia è stato un luogo di transito, dove i miei interessi si son focalizzati sulla Storia dell’Arte, grazie al carisma delle lezioni di Luisa Giordano.

La svolta più importante è poi stata segnata dall’apprendimento di una lingua e di un metodo di lavoro, quelli inglesi, che ho potuto assorbire in un anno di stanza a Cambridge. Lontano dal mortifero e polveroso influsso crociano, che ancora troppo alberga nel nostro Paese, ho capito che per me la Storia dell’Arte era stabilire il senso di un’ immagine, così come la filologia era stabilire il senso di un testo. La mia era una vocazione ermeneutica. Da allora ho abbandonato i formalismi e lo stile, dedicandomi a ricostruire con la più fedele attenzione, iuxta propria principia, il senso delle immagini. Al ritorno in Italia era ora di finire gli esami e di tirare le fila di questo strano percorso. Sapevo riconoscere le piante e i fiori, ero appassionato di magia, di Storia dell’Arte e di simbolismo, avrei scritto un manuale di simbologia botanica nel Rinascimento. Quando scoprii che già esisteva ne rimasi sconvolto. Un lavoro meraviglioso: The Garden of the Renaissance scritto da Mirella Levi D’Ancona. Spulciando tra le voci del suo volume vidi che mancava il verbasco, una pianta usata come stoppino per le lucerne che ricorreva molto spesso in diversi quadri del Rinascimento. Ecco fatto. Passai l’anno successivo a cercare informazioni su questo fiore. Dall’antichità ai giorni nostri, chi ne aveva parlato? poeti, botanici, erbari medievali, scienziati, maghi, raccolsi i brani sull’argomento. Una volta ricostruito il suo significato, legato alla luce, cercai più di cento dipinti in cui la pianta era raffigurata, da Leonardo a Caravaggio, da Mantegna a Correggio, da Bellini ai Fiamminghi. Studiavo nella Biblioteca Universitaria e lì conobbi Vera Segre, mia correlatrice, studiosa di erbari medievali e di miniature; più in là avremmo pubblicato insieme il commento di un erbario, l’Historia Plantarum, conservato alla Biblioteca Casanatense di Roma, ma fatto illuminare da Giangaleazzo Visconti, a Pavia, verso la fine del XIV secolo. Passai un anno a lavorare come obiettore nella Biblioteca Universitaria di Pavia, un dono della fortuna. Potevo entrare nel ventre dell’edificio, conobbi l’anatomia dei magazzini e ogni recesso dove il sapere era conservato su carte preziose e legature polverose. Un luogo meraviglioso, una vera e propria macchina del tempo. Quasi meglio di un giardino. Quando ancora il Salone teresiano era accessibile agli studenti, prima del triste restauro che lo ha confinato a un mostrificio, gli studenti meno distratti e più impegnati erano soliti sedere nella lunga fila di tavoli, ognuno aveva un segnaposto. Non volava una mosca e, rispetto alle sale di lettura dei Dipartimenti, nel Salone teresiano si studiava benissimo, senza distrazioni, in un luogo che incuteva anche una specie di rispetto laico per quella gigantesca, austera navata del sapere, a metà tra il teatro barocco e la nave dei pirati.

Dopo aver svolto con gratitudine i miei obblighi verso la Patria, che mi aveva dato il modo migliore per farlo, sono disceso a Firenze, dove ho cominciato una Scuola di Specializzazione in Arti Minori, unica al mondo. Lì, come per colpi di scena, ho incontrato tutti gli Storici dell’arte che avevo studiato all’Università. In particolare Mina Gregori e Mirella Levi D’Ancona, le mie relatrici, allieve una di Roberto Longhi, l’altra di Erwin Panofsky. La mia tesi di specializzazione, “La cornice bronzea della porta sud del Battistero di San Giovanni a Firenze”, mi è valsa l’invito a un Convegno internazionale di scultura, che si tiene ogni quattro anni in America; ho discusso il mio intervento su Eva–strega a Memphis (Rhodes College) proprio il giorno di Halloween...

Sempre studiando il verbasco sono arrivato a incontrare la figura di Caravaggio, infatti questa è la pianta più spesso raffigurata nei suoi dipinti. Se Caravaggio è il pittore della luce, il verbasco simboleggia la luce perché era utilizzato dai tempi degli assiro-babilonesi come stoppino per le lucerne a olio; vale a dire che chiunque lo vedesse poteva riconoscerlo, come se oggi, al suo posto, dipingessimo una lampadina. La similitudine è buffa, ma serve a contestualizzare il senso della pianta, che è uscito dalle conoscenze popolari e dall’immaginario in seguito alla svolta dell’industrializzazione. Caravaggio conosceva molto bene l’uso delle lucerne per proiettare le immagini con una camera oscura, e, plausibilmente, per queste lucerne, egli utilizzava proprio foglie di verbasco essiccate, accartocciate e intinte nell’olio. Analizzando uno dei dipinti più importanti di Caravaggio per la presenza di un verbasco indicato dalla punta della spada di Saulo, la Caduta di Saulo (Roma, Collezione Odescalchi), mi sono accorto che si poteva spiegare ogni elemento del dipinto come simbolo di epilessia. Di fatto San Paolo (Saulo) soffriva di epilessia, e per questo era anche patrono degli epilettici. Molti altri elementi però riportano alla sfera del male caduco: la schiuma alla bocca del cavallo, le piume, la luna sullo scudo, il lampo, il fulmine e il cielo corrusco, i nastri annodati. Tutte queste parti, per una ragione o per l’altra, possono essere riportati alla diagnosi, alla cura o ai sintomi dell’epilessia (come la si percepiva sullo scadere del Cinquecento). Tutti questi elementi sono anche presenti nei trattati di Giovan Battista della Porta, uno scienziato e mago naturale napoletano, che Caravaggio conosceva per i suoi dimostrati interessi nei confronti del metodo di proiezione delle immagini attraverso lenti e specchi. Della Porta fu infatti il primo a descrivere una camera oscura. Una volta accertato questo interesse, ho proseguito con gli approfondimenti. Questo lavoro mi ha portato a vincere il Dottorato in Storia della Scienza all’Università di Pisa, e a partecipare al Catalogo della Mostra sulla Conversione di Saulo”.

Il resto è cronaca di questi giorni, con la Giornata di Studi caravaggeschi al Ghislieri. Dal verbasco alla vite, il passo è naturale, e breve.

 

Botrytis cinerea sull\'uva del Bacchino malato 
Botrytis cinerea su un grappolo d'uva 
Bacchino Malato, Galleria Borghese - Roma 
Mauro DI Vito & Mina Gregori